La Sala d’attesa

La sala d’attesa dell’unità di neuropsichiatria infantile è diventata nel tempo uno spazio di contemplazione: scale da salire, una doppia porta imponente, un ascensore montacarichi che, quando entri con il passeggino, diventa teatro di storie lampo. Racconti che riesco a tessere nel breve tempo che impiega la cabina a salire da un piano all’altro. In questi frammenti verticali, scopro che la narrazione non ha bisogno di spazi vasti—basta il vuoto di una scala, il tempo sospeso di un ascensore.

La stanza d’attesa vera è quadrata, soffitto alto, sedie disposte lungo il perimetro. Un armadio grigio a due ante. Un tavolino gioco per bambini con due piccole sedie. Accanto, il silenzio—quello che accade quando il caos quotidiano prende una pausa, quando il tuo corpo finalmente smette di correre.

Oggi la sala è quasi vuota. Entrano una mamma e sua figlia adolescente—una ragazza bellissima, capelli biondi ricci e ribelli, perfetti per lei. La madre è grande una decina d’anni più di me. Nervosa. Borbotta. La figlia è silenziosa, calma, persa nel suo universo privato.

Osservo questa mamma e sento di comprenderla completamente: quella fatica di trovare una quadra quando tutto sembra sfuggire di mano, quando il peso dei doveri e della solitudine è insopportabile. Non è indifferenza verso sua figlia—è solo una persona che non riesce a trovare equilibrio, che fa fatica. Non c’è condanna in me. Solo riconoscimento profondo: queste sono le mille versioni della maternità che nessuno mostra.

Poi accade: inaspettato, la ragazza si anima in una danza nervosa. Le braccia strette, come per non disperdersi. Il corpo che ondula su e giù, le spalle verso le ginocchia, i pugni che battono forte contro il petto. Un verso profondo sale dai polmoni—non una parola, ma un ringhio senza rabbia, pura pressione interna che cerca una via di uscita.

La mamma le chiede di smettere. La ragazza urla più forte, si agita ancora di più.

Guardo questa scena e so che è un rito per loro—familiare, radicato. E dentro di me, all’altezza dello stomaco, si crea un calore che sale, si trasforma in voce, lacrime. Mi rivolgo a lei. La chiamo. Reindirizzo il suo sguardo su di me con le dita, come ho imparato a fare, e le chiedo esplicitamente: guardami.

Dalle mie guance cadono enormi lacrime mentre le dico: Devi perdonare tua mamma. Tua mamma ti ama enormemente anche se non ce la fa, perché è stanca. Capisce? Lei smette. Smette di farsi male con i pugni, di urlare. I suoi occhi si fissano sui miei e lo so: ha capito. Conosce già la verità. È un’anima che sa amare—troppo sensibile per voler ferire chi le ha dato la vita.

In questo momento riconosco chi sono davvero: quante volte sono stata cieca io? Quante volte miei figli hanno torturato se stessi per non aggiungermi altri pesi? Quante volte l’ho fatto anch’io come figlia—e ancora lo faccio?

Capisco allora che vivere bene non è questione di avere risposte. È imparare ad amare bene—se stessi e gli altri. È vedere l’altro nel suo fracasso e dirgli: Vedi come ti amo? Anche attraverso il silenzio di una sala d’attesa, anche attraverso le lacrime di una sconosciuta.

Arriva la dottoressa. La seguo lungo il corridoio. Terza porta a sinistra.

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