La pre-adolescenza
Da piccola ero timida. Facevo fatica a stringere amicizia, ma nessuno se ne accorgeva perché con gli altri bambini giocavo volentieri.
Nei primi anni ho imparato a nuotare, a pattinare e a giocare a pallavolo perché a quattro anni mi avevano scartata dalla scuola di ballo. A detta dell’insegnante ero troppo grassa. Oggi non si sognerebbero minimamente di affermare cose del genere. Muovermi mi è sempre piaciuto. Al contrario, non ho mai amato quell’alone di agonismo e competizione che si celava dietro le associazioni sportive. Volevo divertirmi ma sembrava che questo non fosse possibile in nessun ambiente che frequentavo. Alla fine, divenuta più grande, mi sono iscritta in palestra dove per la prima volta non sentivo addosso nessuna pressione.
Fino all’età di 10 anni, insieme a mio fratello più grande, nel mese di agosto andavamo in colonia, solitamente a Castione della Presolana. Di quei giorni, ricordo la merenda con la michetta e il cremino che ci davano al pomeriggio e le passeggiate per andare in paese, dove compravo sempre le caramelle gommose, oppure nel bosco. Il mese di luglio era dedicato alle vacanze con mamma e papà. Solitamente trascorrevamo tre settimane in qualche posto di mare. In Liguria quando eravamo molto piccoli, in Calabria, Puglia e Sardegna una volta diventati più grandicelli.
A undici anni non riuscivo a capire ciò che provavo. Ogni giorno che passava, posizionavo, senza accorgermene, un mattone su un muro immaginario che ignoravo di stare costruendo intorno a me. Un muro eretto per non sentire un sentimento sconosciuto a cui non riuscivo a dare né un senso né un nome. Smantellare quel muro fatto di rabbia e dolore ha richiesto tanto tempo.
A pensarci bene, all’epoca come ora, è come se ci fosse stato un prima e un dopo Salina.
La bambina che stava crescendo visse quella vacanza come una linea di confine tra la fine dell’infanzia e l’affacciarsi dell’adolescenza. la me donna, dopo 35 anni, è tornata per rimuovere qualche mattone da quel muro immaginario.
La paura del giudizio
Il mese di settembre dello stesso anno ho iniziato a frequentare la prima media; ricordo le difficoltà a prendere voti discreti in alcune materie. I compagni nuovi erano estranei con cui non riuscivo a instaurare una relazione. Quelli vecchi, dopo l’estate, avevano adottato comportamenti da grandi. Solo qualche mese prima eravamo in giardino a giocare con l’elastico e a guardie e ladri, maschi e femmine insieme. Ora le mie amiche facevano le sostenute. Erano diventate vanitose, parlavano solo di ragazzi e di come piacere loro. Non mi ritrovavo in quei discorsi, non mi ci ritrovo neanche ora quando capita.
Durante quell’estate anche i miei desideri erano cambiati, ma a differenza delle mie amiche io sognavo l’avventura, fantasticavo di viaggi in giro per il mondo. Ricordo che iniziai a leggere con interesse tutto ciò che mi capitava a tiro. Mi sentivo terribilmente sola in questo. Avevo paura che la mia diversità di pensiero mi avrebbe portata a restare in quella condizione per sempre.
Dopo qualche mese, avvenne però qualcosa di tanto desiderato quanto inaspettato. Uno dei ragazzi della classe, D., iniziò a parlare con me, e fu così che tutte le mie paure sembrarono improvvisamente dissolversi nell’aria. Era buono, gentile, sempre disponibile e soprattutto non indossava maschere. Stare con lui mi veniva naturale. Il tempo trascorso insieme divenne improvvisamente piacevole.
Ma durò poco. Quando il mio nuovo amico divenne il bersaglio dei bulli, ho fatto una cosa di cui mi sono pentita a lungo. L’ho abbandonato.
Desideravo essere accettata dal gruppo classe e non divenire a mia volta oggetto di presa in giro. Così feci una scelta vile. Rinunciai all’unica amicizia che mi aveva fatto stare bene.
Questa presa di posizione, per molti anni, mi ha fatto credere di essere una fallita. Per quella mancanza di coraggio, ho punito me stessa a lungo, pagando così un prezzo ben più alto di qualche presa in giro. Ho perso la poca stima che avevo di me.
La me bambina sognava di essere amata. La me ragazzina ha iniziato a provare vergogna di sé stessa.
Di quello stesso anno scolastico, un altro episodio è arrivato nitido fino al tempo presente, rimanendo scolpito nella memoria.
Durante una delle lezioni di educazione motoria, mi capitò di essere presa a esempio dall’insegnante per uno scatto di corsa. Eravamo divise in coppie e dovevamo correre un rettilineo di circa cinquanta metri. Capitai in coppia con L., una ragazza che abitava nel mio condominio. Corremmo davanti a tutte e la situazione, già imbarazzante di per sé, peggiorò ulteriormente quando la professoressa si complimentò con me mentre con la mia compagna fu molto dura, esprimendo un giudizio critico negativo. Non era da me glorificarmi, non lo è tuttora.
Ricordo che provai solo tanta vergogna perché avevo vissuto quella corsa come una competizione e, dopo averla vinta, invece di gioirne sarei andata volentieri a nascondermi da tutti quegli sguardi che mi sentivo addosso.
Non un corpo ma un’anima
Mi sono chiesta spesso: perché il mio fisico fosse oggetto di così tante attenzioni? Perché le donne troppe volte si sono sentite libere di esprimere un giudizio sul mio aspetto? Queste e altre domande mi hanno tormentato fino a poco tempo fa.
“Saresti così bella con 10 kg di meno”. “Sei così carina… se solo fossi più femminile”. “Ma lo usi il pettine ogni tanto?” “Dovresti amarti di più”. “Con i vestiti larghi sembri il doppio”. “Hai delle belle gambe, perché non le mostri? Metti una gonna ogni tanto”. “Le scarpe basse non ti donano. Quei polpacci sono così grossi.” “Perché non ti curi un po’?”
Ho provato per moltissimi anni un forte disagio e un rifiuto del mio corpo, al punto di osservarmi allo specchio e vedere un’immagine così distorta di me da provocaremi un forte disgusto.
In quel periodo lottavo costantemente contro me stessa e contro il mondo per restare autentica. Volevo essere vista e accettata così com’ero. Desideravo mostrare al mondo la mia anima, non il mio corpo.
Ma non avevo la minima idea di come fare. Così, senza rendermene conto, giorno dopo giorno, giudizio su giudizio, ho iniziato a indossare non solo una maschera ma un’intera armatura. Invece di farmi conoscere ho finito per nascondermi.
Sempre determinata e consapevole di quello che volevo ma totalmente incapace di comunicare con il mondo esterno, ogni tentativo di confronto era un’enorme sofferenza. La paura del rifiuto mi ossessionava.
Per anestetizzare tutto il caos che mi portavo dentro, andavo di nascosto nella dispensa. Trovavo sempre qualcosa da ingoiare e riempivo lo spazio vuoto lasciato dall’incapacità di avere una relazione sana con il mondo esterno.
Dolce o salato che fosse, se era velocemente accessibile era destinato a diventare mio. La sensazione di pieno, che provavo uscendo da quello sgabuzzino, seppur temporanea, era molto appagante.
Ma durava sempre troppo poco.
Io e gli altri
Passare dalle scuole medie alle superiori non mi ha fatto stare meglio.
Il nuovo istituto era in un’altra città e per arrivarci dovevo prendere un pullman, poi un treno e camminare molto a piedi. In alternativa potevo percorrere 12 km con la bicicletta, tra andare e tornare. Nei mesi in cui non faceva troppo freddo, usavo le due ruote. Era come scappare da me stessa e dal mondo.
Vivevo costantemente con il pensiero di essere schernita appena mettevo piede in classe. Un ragazzo in particolare insisteva nel dirmi che puzzavo. Mi faceva sentire piccola, con lo schifo addosso. Per reazione, quando arrivavo a scuola correvo in bagno a lavarmi. Ma non era sufficiente per farlo smettere e nei primi due anni stare in classe fu una tortura.
Non riuscivo a trovare il mio posto in quel mondo complicato che fu per me la scuola superiore.
A partire dal terzo anno le cose cambiarono un pochino. Cercai di aggregarmi a uno dei gruppetti di amicizie in cui era suddivisa la mia classe:
Il gruppo delle “secchione”. Ma le giudicai troppo serie: scuola, oratorio, studio e sport. Quel loro modo di essere perfette mi stritolava lo stomaco.
Le inseparabili, diverse tra loro ma con una sintonia di coppia indisturbabile.
Le valchirie. Due ragazze dalla bellezza giunonica. Non c’era disprezzo o alterigia nei loro modi, eravamo semplicemente in mondi paralleli che condividevano lo stesso spaziotempo a scuola. Mi sentivo un fagotto informe quando osservavo queste due perle da una distanza di sicurezza perché era elevatissimo il rischio di venire investita dalla corte che inevitabilmente si formava intorno a loro.
La ragazza a cui veniva tutto facile e che andava d’accordo con tutti. Era carina ma non troppo, magra senza sforzo, aveva ottimi voti in tutte le materie senza spaccarsi la testa sui libri, frequentava una compagnia di amici e partecipava a molte iniziative sociali. Aveva già il ragazzo ed era una cosa seria. Non mi poteva neanche stare antipatica perché era solare e disponibile, oltre che sempre gentile e mai scontrosa.
Non riuscivo a trovare una corrispondenza in mezzo a quella zuppa di persone.
Finché non trovai un po’ di stabilità avvicinandomi a un gruppo di ragazze che mi accolse e che in quei tre lunghi anni diventarono le mie amiche. Conservo un bel ricordo di quel periodo. Ci siamo divertite insieme. Ma la confusione che mi portavo cucita addosso era tale che sento di non essermi sempre comportata bene con loro.
Avevo aspettative sull’amicizia troppo elevate.
Durante quel lungo periodo mi sono sentita troppe volte giudicata e raramente capita. Mi faceva male non trovare una corrispondenza fuori da me. Ci sono voluti quasi tre decenni per iniziare a capire.
Il semplice esistere, spesso, fa male.
Oggi
Ti chiedo scusa
Non comprendevo fino a che punto fossi incasinata, finché non ho scelto di essere a mia volta genitore. Sono andata in tilt come un flipper perché volevo a tutti i costi fare qualcosa per non condannare mio figlio a un vissuto simile al mio. Tutto inutile, purtroppo, perché senza accorgermene ogni singola paura, l’ho proiettata sulla famiglia che avevo formato, scuotendola nel profondo.
Un giorno, colta da una bruciante disperazione, ho pianto e urlato tutto il mio bisogno di aiuto. Mio figlio di tre anni appena compiuti, secondo la scuola, aveva bisogno di aiuto. A mio parere, non era lui, anima innocente, quello con i problemi. Ero io la cattiva madre. Vestita del peso della colpa per le difficoltà di mio figlio, non sapevo perdonare me stessa.
Per troppo tempo ho combattuto una guerra interiore. Quel turbamento iniziato sull’isola molti anni prima si era sedimentato finché è deflagrato quando sono diventata madre.
Un giorno, in preda al senso di colpa, ormai consapevole di troppe cose, scrissi questa lettera al mio primogenito:
“Per tutte le volte che ho mancato di esserci nel presente.
Per tutte le volte che non ti ho accolto, in quanto te, in quanto unico e indissolubile.
Per non averti ascoltato, preda della furia nascosta troppo a lungo, e per non essere stata ascoltata a mia volta.
La donna che chiede scusa ora, per mille e più motivi, è diventata grande sbagliando con te.
Hai incondizionatamente vissuto le ferite della bambina che sono stata.
Ho proiettato su di te, tutte le fatiche, le paure, la rabbia e la frustrazione.
Ho tentato di gioire con te, di te.
Ti ho lasciato libero di essere come non lo sono stata io.
Ho represso la tua anima per paura, come hanno fatto con me.
Ho scoperto di essere stata amata, amando te.
Ho faticato per accettare il mio passato, perdonare e perdonarmi per riuscire a vivere il presente.
Hai tutte le ragioni di questo mondo per essere arrabbiato con me.
Vivo con la speranza che un giorno potrò vedere l’uomo che diventerai, nonostante il bambino ferito che sei stato e che porti con te.
So con certezza che te la caverai.
Hai, senza che io ne abbia grande merito, capacità innate e grande intuito e intelligenza.
Spero, un giorno, di avere l’onore di fare parte della tua vita, come io fatico a fare nei confronti degli altri.
Ci sto lavorando. Sono nata quando sei arrivato tu.
Rinasco ogni giorno nella speranza e nella fede del futuro che desidero.
Ti ho ferito nel modo più doloroso.
Adesso lo so: amarti non basta. Bisogna imparare a farlo nel modo corretto, affinché a te giunga solo amore incondizionato.
Non smetterò mai di cercare la via per farlo.”
Le morti aumentano
Il tempo è passato, e di quella competizione che c’era tra noi, resta solo il ricordo amaro di una relazione incompiuta per la cocciutaggine del rifiuto che per molti anni mi ha resa cieca.
Non essere in grado di accettarmi, mi ha offuscato la vista su tante cose che subivo o commettevo senza averne minimamente consapevolezza.
Eravamo in competizione, entrambe sotto la lente del giudizio che misurava il nostro sovrappeso.
Tu sempre alla ricerca di accettazione che ti rendeva precisa e inappuntabile. Curata e in ordine, brava e diligente, ma agli occhi del mondo con una linea troppo larga. Io invece ribelle, strana, sopra gli schemi precostituiti dalla società che ci voleva sottili senza forme. E le mie e le tue erano forme tutte curve che abbondavano ovunque.
Entrambe avevamo vergogna di noi stesse. Tu cercavi di valorizzarti, io di nascondermi.
Senza accorgercene, siamo entrate in una competizione dove non si sa quale fosse il premio o chi fosse il giudice. Entrambe con il desiderio di essere accettate così come eravamo.
Dopo quella corsa così umiliante, non ci siamo più frequentate. Non siamo diventate amiche solidali contro la società ottusa. Non abbiamo fatto delle nostre fatiche sociali un’arma di lotta femminista. Ci siamo perse ma ci siamo anche osservate a distanza finché, cresciute troppo, abbiamo entrambe messo su una famiglia. La distanza prima e la malattia poi, in pochi anni ti hanno portata via da questo mondo.
Prima di te, un’altra nostra compagna di scuola è partita per il viaggio finale. Morta del tuo stesso male, quello che colpisce solo noi donne e che conosco bene perché la nonna Emilia con una mastectomia parziale lo ha sconfitto. Lei non è rimasta solo mamma, è diventata anche nonna prima di lasciarci a ottantanove anni. Il cancro lascia il vuoto e non solo nel petto. Il pieno nella testa lo fa il pensiero che la morte è reale.
Prima di voi, un altro compagno di scuola, questa volta alle elementari, dalle vacanze in Egitto non è più tornato. La crociera sul Nilo, che evoca ai più paesaggi esotici e storie incredibili, nella mia mente porta morte per annegamento.
Le morti aumentano, alimentate dal tabellone fuori sulla strada. Qualche conoscenza si aggiunge alla lista. Più o meno coetanei interrompono la loro strada in un giorno qualunque.
E io mi fermo a pensare che non c’è posto a questo mondo per la rabbia che ogni tanto mi prende. Non c’è posto per l’odio verso il fastidio che alcune persone mi provocano. Non c’è bisogno di fare la guerra a niente e a nessuno.
Ho voglia di costruire ponti e strade su cui incontrarci al di là delle divergenze. E a chi per motivi a me sconosciuti si pone la questione di mettersi in mezzo, lascio lo spazio per passare.
Ma il male non lo sconfiggi, è radicato ovunque; quando non posso evitarlo lo combatto con la parola, il buon senso e la ragione, altrimenti volgo lo sguardo altrove, faccio un passo indietro e cambio strada.