I racconti dell’io
La realtà è un grande ammasso di metallo che si alza in volo vincendo la gravità. Una lama che squarcia il cielo come un velo che separa l’idea dal progetto.
Dopo due mesi di ricerche, richieste di informazioni, e letture, mi trovo seduta nelle vicinanze del gate, a osservare questo piccolo pezzo di mondo. Il tempo è grigio, la foschia copre le prealpi.
Coppie in viaggio, ragazzi in partenza per la gita scolastica e persone in attesa, con chissà quante storie da raccontare. Osservo la pista. Spazi enormi delimitati dai capannoni. Un altro aereo sta per decollare.
Dentro, tra il vociare dell’attesa, sento amplificato il metallo sottile che incontra la ceramica nel più banale dei gesti quotidiani.
Movimenti calcolati, gesti ripetuti che vanno in contrasto con il mio sentire.
Mi abituerò mai? Ne avrò l’occasione? Perderò la magia? Diventerà, un giorno, una necessità banale come prendere un caffè al mattino? Quanti interrogativi tutti in una volta.
Seduta composta con le gambe accavallate, il quaderno in una mano e la penna nell’altra, affronto la paura di volare. Mi spinge il desiderio di tornare là dove tutto ha avuto inizio. Mi attende una settimana di piena solitudine, lontana da ritmi scanditi e quotidiane abitudini. Tempo prezioso, che sarà, solo mio.
Uno sguardo al tabellone delle partenze. Lods?!? Ma dove si trova? Non ne ho mai sentito parlare.
In un’altra vita vorrei avere la libertà di acquistare un biglietto, e partire per una destinazione sconosciuta, solo per il gusto di soddisfare la curiosità.
Sento le spalle tese. L’ansia, che tento costantemente di schiacciare giù nella pancia, risale spinta da una forza sconosciuta. Essere ossessiva, mi aiuta a tenerla a bada e non mi fa andare in palla il cervello. Se perdo il controllo, entro in modalità panico e faccio danni.
Inspiro profondamente, è arrivato il momento. Che disastro se mi fanno imbarcare lo zaino in stiva.
Passo i controlli, percorro il corridoio, scendo le scale e lentamente, seguendo il flusso, mi ritrovo dentro l’aereo. Trovo il mio posto, mi sistemo.
Mentre attendo che terminino le operazioni di imbarco e di preparazione al decollo, per distrarmi dall’attacco di panico che attende di salire a bordo con me, inizio a riversare sul vicino, un fiume di parole, che raccontano di questo viaggio. Una donna bella ed elegante è seduta vicino al finestrino, io ho scelto il sedile vicino al corridoio. Mi domando cosa penserà di me che ciarlo da quando mi sono seduta. Spero di non passare per una logorroica scassa-palle. Mi impongo il silenzio. Prendo la raccolta de “I racconti dell’io” che ho portato con me e sprofondo nella lettura.
Una voce interiore mi ha spinto a partire, ma io non so perché ho deciso di tornare a Salina dopo tutto questo tempo.
Il mare colore del ferro
Scendo dall’aliscafo e anche qui mi ritrovo a seguire il flusso dei passeggeri. Ad accoglierci, dopo aver attraversato la strada, ci sono una piazza, la chiesa gialla dai profili intonacati di bianco e quello che presumo essere l’ufficio del turismo.
Mi avvicino ed entro. Lo sguardo interrogativo che mi rivolge la persona seduta dietro alla scrivania, fa sorgere in me il dubbio di essere caduta in errore. In ogni caso ottengo l’informazione che cercavo.
Ho la netta sensazione che sia la milionesima volta che risponde alla stessa domanda. “Sulla sinistra c’è una panchina. Aspetta lì”.
Di nuovo, come se anche la domanda successiva, l’avesse già sentita chissà quante volte, aggiunge: “Sul pulmino!”
Saluto, seguo le indicazioni, mi siedo sulla panchina e aspetto. Da quando sono arrivata in aeroporto questa mattina ho fatto solo questo: un’ora al gate, due sull’aereo, due sul pullman, una al porto in attesa dell’aliscafo e quasi due ore per mare.
Provo orrore al pensiero di trascorrere anche le prossime due ore su questa panchina. Sono stanca e non ho voglia di cercare nello zaino il foglio con gli orari del pulmino stampato, in via precauzionale, prima della partenza.
Un senso di vuoto sale all’improvviso dallo stomaco alla gola. Mi succede sempre quando sono stanca. Mi guardo un po’ in giro, cerco qualcosa su cui fissare lo sguardo per distrarmi.
Il cielo è denso di nubi scure che smorzano la luce del tardo pomeriggio. Il mare è del colore del ferro, scuro e immobile. A terra l’asfalto è bagnato, segno del passaggio recente della pioggia.
Un volto segnato da rughe profonde mi sorride. Appartiene a un uomo con occhi chiari e liquidi, impegnato a riporre oggetti nel bagagliaio di un’auto dalla carrozzeria scolorita, mangiata dal sale. Ha smontato il banco con l’arrivo dell’ultimo aliscafo della giornata. Commerciante stagionale, immagino, che ripete questi gesti ogni giorno mentre il mondo gli passa davanti.
Fermo i pensieri: so che la curiosità mi spingerebbe a invadere uno spazio che non mi appartiene.
Per evitare l’imbarazzante silenzio che ha fatto seguito al cenno di saluto che ci siamo appena scambiati, mi giro leggermente verso il mare. Chiudo gli occhi e ascolto.
Assenza di suoni. La natura sembra essere in pausa. Quanta differenza tra questo luogo e quello da cui provengo. Qui il tempo sembra dilatarsi. In città non riesco ad apprezzare il bello che mi circonda. Quando chiudo gli occhi, la natura è sovrastata dal rumore di auto e moto che frenano, si fermano e infine ripartono.
Riapro gli occhi. Il mare è ancora lì, immobile, in attesa. La piazza lentamente si rianima.
Una ragazza, più o meno dell’età di Pietro, uno dei miei figli, porta a spasso il cane e il mio pensiero vola a casa. Chissà chi è uscito in passeggiata con Peach. Sentirà la mia mancanza? Arriva il pulmino. Una decina di ragazzini con lo zaino di scuola, sbucati da non so dove, si salutano. Salgono solo alcuni. Il pulmino riparte. Non era il mio. Una signora lentamente si avvicina e viene a sedersi accanto a me. Tiene tra le braccia una cagnolina molto piccola. Trema tutta. “Si chiama Titti”. Stefania, il suo nome, mi racconta di essere qui con un’amica che è di Milano e soggiorna per qualche giorno in un albergo di Lingua.
Attendiamo insieme il nostro passaggio. Nel giro di cinque minuti arriva. Con fatica sollevo la valigia e salgo. Chiedo al conducente, che accetta volentieri, la gentilezza di lasciarmi davanti a “Casa Ofria”. Ci tiene a sottolineare, però, che “Non si dovrebbe!”.
Saluto Stefania, ringrazio l’autista e scendo dal pulmino. Sollevo la valigia su per una scalinata bianca. Casa Ofria è un edificio molto grande. Dal pergolato, che possiede una bellissima vista panoramica sulla Salina e sul faro di Lingua, si accede attraverso due porte in legno, direttamente alla camera da letto padronale e alla cucina.
Lascio la valigia e lo zaino vicino al letto, do un po’ di occhiate in giro per la casa, prendo la borsa ed esco.
Un’ondata di energia ha spazzato via ogni traccia di stanchezza del viaggio. Sento nascere in me un forte senso di soddisfazione: ci sono riuscita, il viaggio è andato bene e questa settimana, tanto attesa e desiderata negli ultimi mesi, può finalmente cominciare.
L’aria del tardo pomeriggio, complice la pioggia passata, è fresca. Percorro una strada stretta tra le case di Lingua e un muro a secco che delimita piccoli appezzamenti di terreno coltivato, fino a ritrovarmi in una piazzetta affacciata sul mare. Non c’è nessuno. Sulla piazza trovo un negozio di generi alimentari, e un paio di ristoranti. La stagione estiva inizierà tra qualche settimana. Questo posto allora sarà ben diverso da come si mostra ora ai miei occhi. Ombrelloni chiusi e tavolini vuoti mettono un po’ di malinconia. Uno dei locali fortunatamente è aperto, così decido di ritornare dopo per trovare qualcosa da mangiare. Ora voglio visitare il faro e “sentire” il mare.
Sulla spiaggia c’è una famiglia con bambini piccoli che sta passeggiando. Il sole sceglie questo momento per affacciarsi prima del tramonto. Finalmente un po’ di luce: tutto intorno a me improvvisamente si colora.
Mentre cammino verso il faro mi accorgo che una persona mi sta seguendo. Un uomo, incontrato prima sul lungomare, lentamente si avvicina. La bolla di cristallo va in frantumi. Dov’è finita tutta la mia sicurezza? La realtà è che, su quest’isola, sono sola e non conosco nessuno. Per la prima volta da quando ho deciso di partire, cresce in me una grande paura che mi fa sentire fragile. Una facile preda.
Prendo il cellulare e inizio a scrivere un messaggio per dire a mio marito tutto il contrario di come mi sento, e cioè che va tutto bene, che sono arrivata e che sono contentissima. Purtroppo questo non mi fa sentire meglio e quell’uomo, sembra non avere fretta, aspetta paziente, mi supera e prosegue verso il faro. Chiamo Nino, parlo per qualche secondo, ma è impegnato, così termino troppo presto la chiamata e il tipo torna indietro da me.
Tento di non entrare in modalità panico. Deve aver compreso i miei timori perché l’uomo subito si scusa. Mi sento una stupida. Nella mente mi ero già fatta un film dalla trama orribile. Mentre mi parla, rifletto e mi accorgo che anche io quando mi trovo sola, sarei capace di attaccare bottone anche con i sassi. Anche lui è in visita a Salina, anche se per lavoro. Mentre ascolto con interesse la storia antica del suo paese, della sua famiglia e della sua florida attività, passeggiamo insieme verso il faro e la striscia di pietra lavica che separa il mare dalla zona lacustre. Tornati in piazzetta, nel salutarci, mi lascia un biglietto da visita, invitandomi, qualora dovessi trovarmi in difficoltà, a contattarlo. Mi sento come se mille occhi fossero puntati su di noi. Eppure ci sono solo un paio di persone.
Non mi era mai successo, di ricevere questo tipo di attenzioni, e da questa mattina è già la seconda volta.
La bella donna incontrata in aereo, infatti, una volta a terra mi ha aiutato a trovare il bus per Milazzo e mi ha lasciato il suo contatto per lo stesso motivo. Anche Sonia, questo il suo nome, mi ha detto: “Di qualunque cosa avessi bisogno, chiamami pure”.
Entro nel piccolo negozio di generi alimentari e acquisto del formaggio e un sacchetto di paste di mandorla. Un abbinamento di certo originale, ma per la cena ho scelto di provare il famoso “pane cunzato”. Quello di Alfredo mi hanno detto che è famoso in tutto il mondo. Quindi esco dal negozio ed entro nel locale a fianco, lo ordino e mi siedo fuori ad aspettare che sia pronto.
Ripercorro la stretta via, con in mano un contenitore da asporto. Dentro una pagnotta appena sfornata, emana un profumino invitante.